L'alimentazione nel monastero


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Il rapporto monastico con il cibo era improntato alla Regola di San Benedetto: "ama il digiuno ... non esser dedito al vino, non molto mangiatore", quindi ruotava intorno all'idea della penitenza e dell'autocontrollo. Secondo San Benedetto, oltre al pane che era l'alimento principale, erano concesse due pietanze cotte, dette pulmentaria, comprendenti vegetali, uova, formaggio e legumi, in modo che o l'una o l'altra riscontrassero il gusto del commensale. Queste disposizioni si tradussero per i Vallombrosani in minestra, in alternativa a insalata cotta o cruda, formaggio e pietanza cotta, a cui si aggiungeva una ulteriore portata di frutta fresca. La razione di pane giornaliera, da distribuirsi a pranzo e a cena, era di una libbra, equivalente all'incirca a 500 grammi. La carne di quadrupedi poteva essere mangiata solo dagli infermi o dagli ospiti o, se concesso dall'abate, la domenica, il martedì e il giovedì ma in piccole quantità. Più tollerata era l'assunzione di carne di pollame e di pesce. Non si poteva mangiare fuori dal monastero senza licenza dell'abate. Nella cultura monastica il cibo è il fondamento della salute del corpo e l'alimentazione ha anche un valore curativo. Alcuni elementi come l'aglio e la cipolla erano inseriti nelle pietanze per motivi curativi. L' "ortaglia" che occupava tutta l'area a mezzogiorno, antistante il monastero, aveva un'importanza notevole nella vita quotidiana del monastero e comprendeva anche l'"orto dei semplici", ovvero la coltivazione di piante curative. Nelle norme che regolavano la vita del Monastero si fa esplicito riferimento alla pena di mangiare pane e acqua in ginocchio nel refettorio per vari reati, come nel caso di furto per il quale la denutrizione durava fino alla restituzione del maltolto.
(Alessandra Civai, Lisa Fracassetti, diritti riservati)